lunedì 28 novembre 2011

Archeologia e psicoanalisi


Scavare in profondità e in superficie: siamo archeologi delle nostre vite


“L’intento del lavoro analitico è far sì che il paziente rinunci alle rimozioni. L’analista deve scoprire o per meglio dire costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che sono rimaste”. Il grande artefice della modernità,  Sigmund Freud, è anche l’inventore della metafora archeologica per parlare di psicoanalisi. Questa scienza anomala, dai confini incerti, talvolta essa stessa ‘psicolabile’ è in fondo un metodo per fare affiorare rovine o meravigliose città sepolte nella psiche. Da che Freud porterà alla luce questa metafora non la abbandonerà più, nella vita e nella professione, anzi si appassionerà sempre più d’archeologia e diventerà un collezionista di reperti antichi. È stato incentrato tutto su affinità e diversità tra archeologia e psicoanalisi, intreccio di saperi e chiave di volta musicale, il convegno “La metafora archeologica nella pratica psichiatrica e psicoterapeutica” che l’associazione Dialogos di cui è presidente il professor Pietro Bria ha organizzato come ogni anno nella superba cornice della foresteria delle monache camaldolesi di Roma, all’Aventino. Freud volle precisare: “l’oggetto psichico è incomparabilmente più complicato di quello materiale con cui ha a che fare l’archeologo”, per cui “ mentre per l’archeologia la ricostruzione coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi, per l’analisi la costruzione è soltanto un lavoro preliminare”. Affinità ce ne sono, come spiegato dall’archeologo Andrea Carandini: “Scavare è salvare dal caos” alla ricerca incessante di un equilibrio tra sommerso ed emerso come nella terra così nella nostra psiche. “Il sommerso alla Pompei ricorda molto l’inconscio rimosso”. Freud nella catena di metafore da lui prodotte ha visto Roma sia come abitato che come entità psichica e il nesso c’è perché, come ha evidenziato Carandini: “sia nella città che nella psiche ci sono possibilità impressionanti di abolizione del tempo”.
Fausto Petrella, presidente della Società psicoanalitica italiana ha ricordato l’importanza nella invenzione della metaforica archeologica di un sogno fatto da Freud dopo essere stato a casa di una paziente e aver visto un’acquaforte (forse di Piranesi, l’ipotesi di Petrella) che dà avvio al suo mito personale della Roma antica e delle rovine. “L’idea guida dell’essere freudiano è ricostruire le cose come stanno e molte delle cose richiedono un’interpretazione, tecnica che la psicoanalisi condivide con l’archeologia con tutta una serie di cautele”. Essenziale fu anche per Freud la scoperta, tramite l’allievo Carl Jung, di un romanzo archeologico, “Gradiva” di Wilhelm Jensen, fondamentale anche nella costruzione della sua fantasia pompeiana. È Freud a dire che “le pietre parlano”, ricorda Petrella: “le pietre parlano come gli uomini, l’aria a patto che ci sia un’attività divinatoria, qualcuno che riesca ad ascoltare e accogliere ciò che dicono. Lo psicoanalista al lavoro è come un indovino, indovinare significa mettere a frutto la propria intuizione, non un intuizionismo banale, mobilitare qualcosa di sé a livello profondo”. Pietro Bria ha ricordato il musicista Giuseppe Sinopoli, di cui è stato amico, straordinaria figura di medico-psichiatra, direttore d’orchestra, archeologo ed egittologo. “Si scava nella musica, si scava nella psiche dell’uomo, si scava nell’archeologia. Cambia l’oggetto ma la posizione mentale è sempre quella”, annotò Sinopoli. La musica che scava è arte del tempo nata per sopprimere il tempo. Alberto Panza, psicoantropologo si è soffermato sul rapporto tra Freud e Roma. Per Petrella l’interdizione ad entrare a Roma  di Freud coincide con la fase nevrotica e “ha a che fare con il fantasma materno, materno edipico”. Infatti per ben quattro volte Freud viaggiò in Italia ma non riuscì ad arrivare a Roma: la quarta volta si fermò al lago Trasimeno, paragonandosi ad Annibale. Finalmente vi riuscì nel 1901 e dal 1901 al 1923 compì ben 7 viaggi a Roma che divenne, ricorda Panza, “luogo della salus, intesa sia come salute che come salvezza”.
Come si spiega questa difficoltà ad arrivare, cosa aveva proiettato sulla città eterna? “Roma diventa per Freud il luogo dove è possibile una ricomposizione. Vita e morte si ricompongono almeno in effige, il luogo in cui i diversi livelli temporali possono coesistere in continuità, la città è un’immensa stratificazione en plein air ma vivente nella metamorfosi, una vittoria sull’azione disgregatrice del tempo”. Roma è a strati come a strati è l’anima umana. Ricorda e sottolinea Panza, inoltre, che “nessuna metafora è innocente. La metafora archeologica ha consentito grandissime intuizioni ma è corresponsabile della sopravalutazione del pathos del nascosto per cui la psicoanalisi è diventata una sorta di caccia enigmistico-poliziesca all’anello mancante”. Invece la psicoanalisi non è  un’avventura poliziesca, né un modo per stanare contenuti censurati e nascosti, casomai, grazie al cammino dopo Freud, è un’esplorazione di configurazioni mentali differenti (Wilfred Bion), secondo un’idea della psiche non come universo ma multi verso (Ignacio Matte Blanco) e se è archeologia lo è del presente (Salomon Resnik) e lo psicoanalista costruisce o tenta di costruire un’articolazione che deve collegarsi a quella del paziente alla ricerca di un senso. È vero che, come in archeologia vanno rispettati i livelli stratigrafici, ma senza rigidità, perché l’ordine può essere sovvertito da una accidente qualsiasi. La memoria non è mai archivistica, la ricerca delle origini non è ricerca delle origini cronologiche ma interrogativo da dove veniamo e cosa c’è dopo di noi. Decisiva l’affermazione conclusiva di Panza: “L’archeologia allora vale non come metafora della psicoanalisi, ma come metafora dell’esistenza in cui tutti siamo viaggiatori, a volte impauriti quando ciò che abbiamo appena vissuto diventa lontano, o ciò  che è lontano rivela prossimità o vicinanza”.

  by Piera Lombardi, tratto da AtlantideZine

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