Scavare in profondità e in superficie: siamo archeologi delle nostre vite
“L’intento del lavoro analitico è far sì
che il paziente rinunci alle rimozioni. L’analista deve scoprire o per
meglio dire costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce
che sono rimaste”. Il grande artefice della modernità, Sigmund Freud, è
anche l’inventore della metafora archeologica per parlare di
psicoanalisi. Questa scienza anomala, dai confini incerti, talvolta essa
stessa ‘psicolabile’ è in fondo un metodo per fare affiorare rovine o
meravigliose città sepolte nella psiche. Da che Freud porterà alla luce
questa metafora non la abbandonerà più, nella vita e nella professione,
anzi si appassionerà sempre più d’archeologia e diventerà un
collezionista di reperti antichi. È stato incentrato tutto su affinità e
diversità tra archeologia e psicoanalisi, intreccio di saperi e chiave
di volta musicale, il convegno “La metafora archeologica nella pratica
psichiatrica e psicoterapeutica” che l’associazione Dialogos di cui è
presidente il professor Pietro Bria ha organizzato come ogni anno nella
superba cornice della foresteria delle monache camaldolesi di Roma,
all’Aventino. Freud volle precisare: “l’oggetto psichico è
incomparabilmente più complicato di quello materiale con cui ha a che
fare l’archeologo”, per cui “ mentre per l’archeologia la ricostruzione
coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi, per l’analisi la
costruzione è soltanto un lavoro preliminare”. Affinità ce ne sono, come
spiegato dall’archeologo Andrea Carandini: “Scavare è salvare dal caos”
alla ricerca incessante di un equilibrio tra sommerso ed emerso come
nella terra così nella nostra psiche. “Il sommerso alla Pompei ricorda
molto l’inconscio rimosso”. Freud nella catena di metafore da lui
prodotte ha visto Roma sia come abitato che come entità psichica e il
nesso c’è perché, come ha evidenziato Carandini: “sia nella città che
nella psiche ci sono possibilità impressionanti di abolizione del
tempo”.
Fausto
Petrella, presidente della Società psicoanalitica italiana ha ricordato
l’importanza nella invenzione della metaforica archeologica di un sogno
fatto da Freud dopo essere stato a casa di una paziente e aver visto
un’acquaforte (forse di Piranesi, l’ipotesi di Petrella) che dà avvio al
suo mito personale della Roma antica e delle rovine. “L’idea guida
dell’essere freudiano è ricostruire le cose come stanno e molte delle
cose richiedono un’interpretazione, tecnica che la psicoanalisi
condivide con l’archeologia con tutta una serie di cautele”. Essenziale
fu anche per Freud la scoperta, tramite l’allievo Carl Jung, di un
romanzo archeologico, “Gradiva” di Wilhelm Jensen, fondamentale anche
nella costruzione della sua fantasia pompeiana. È Freud a dire che “le
pietre parlano”, ricorda Petrella: “le pietre parlano come gli uomini,
l’aria a patto che ci sia un’attività divinatoria, qualcuno che riesca
ad ascoltare e accogliere ciò che dicono. Lo psicoanalista al lavoro è
come un indovino, indovinare significa mettere a frutto la propria
intuizione, non un intuizionismo banale, mobilitare qualcosa di sé a
livello profondo”. Pietro Bria ha ricordato il musicista Giuseppe
Sinopoli, di cui è stato amico, straordinaria figura di
medico-psichiatra, direttore d’orchestra, archeologo ed egittologo. “Si
scava nella musica, si scava nella psiche dell’uomo, si scava
nell’archeologia. Cambia l’oggetto ma la posizione mentale è sempre
quella”, annotò Sinopoli. La musica che scava è arte del tempo nata per
sopprimere il tempo. Alberto Panza, psicoantropologo si è soffermato sul
rapporto tra Freud e Roma. Per Petrella l’interdizione ad entrare a
Roma di Freud coincide con la fase nevrotica e “ha a che fare con il
fantasma materno, materno edipico”. Infatti per ben quattro volte Freud
viaggiò in Italia ma non riuscì ad arrivare a Roma: la quarta volta si
fermò al lago Trasimeno, paragonandosi ad Annibale. Finalmente vi riuscì
nel 1901 e dal 1901 al 1923 compì ben 7 viaggi a Roma che divenne,
ricorda Panza, “luogo della salus, intesa sia come salute che come
salvezza”.
Come
si spiega questa difficoltà ad arrivare, cosa aveva proiettato sulla
città eterna? “Roma diventa per Freud il luogo dove è possibile una
ricomposizione. Vita e morte si ricompongono almeno in effige, il luogo
in cui i diversi livelli temporali possono coesistere in continuità, la
città è un’immensa stratificazione en plein air ma vivente
nella metamorfosi, una vittoria sull’azione disgregatrice del tempo”.
Roma è a strati come a strati è l’anima umana. Ricorda e sottolinea
Panza, inoltre, che “nessuna metafora è innocente. La metafora
archeologica ha consentito grandissime intuizioni ma è corresponsabile
della sopravalutazione del pathos del nascosto per cui la psicoanalisi è
diventata una sorta di caccia enigmistico-poliziesca all’anello
mancante”. Invece la psicoanalisi non è un’avventura poliziesca, né un
modo per stanare contenuti censurati e nascosti, casomai, grazie al
cammino dopo Freud, è un’esplorazione di configurazioni mentali
differenti (Wilfred Bion), secondo un’idea della psiche non come
universo ma multi verso (Ignacio Matte Blanco) e se è archeologia lo è
del presente (Salomon Resnik) e lo psicoanalista costruisce o tenta di
costruire un’articolazione che deve collegarsi a quella del paziente
alla ricerca di un senso. È vero che, come in archeologia vanno
rispettati i livelli stratigrafici, ma senza rigidità, perché l’ordine
può essere sovvertito da una accidente qualsiasi. La memoria non è mai
archivistica, la ricerca delle origini non è ricerca delle origini
cronologiche ma interrogativo da dove veniamo e cosa c’è dopo di noi.
Decisiva l’affermazione conclusiva di Panza: “L’archeologia allora vale
non come metafora della psicoanalisi, ma come metafora dell’esistenza in
cui tutti siamo viaggiatori, a volte impauriti quando ciò che abbiamo
appena vissuto diventa lontano, o ciò che è lontano rivela prossimità o
vicinanza”.
by Piera Lombardi, tratto da AtlantideZine
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