venerdì 6 novembre 2015

Un vino "da museo"

Dal blog Museums Newspaper: Un vino "da museo"



Storia un vino, di archeologia sperimentale, di musei e di un legame indissolubile con una terra antica. Intervista a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini

Synaulia e Il Centro del Suono hanno organizzato centinaia di banchetti in moltissimi musei ed aree archeologiche italiane ed europee (il Prahistorische Staatssamlung Museum di Monaco, l’ArchaologischerPark Regionalmuseum di Xanten, Germania, il Parco Archeologico di Baratti ePopulonia, il Museo Guarnacci di Volterra, solo per citarne alcuni), si sono occupati di rievocazioni di archeologia sperimentale svolte nei musei e negli anfiteatri di Monaco, Trier, Xanten, Aalen, Bonn, Bad Gogging, Mainz, Rosenheim e a Berlino nell'Altes Museum, oltre ad aver collaborato a numerosi documentari, programmi scientifici e film, soprattutto nelle scene di banchetto, per esempio in Sogno di una notte di mezza estate di Michael Hoffman, Il Gladiatore di Ridley Scott, Nativity di Catherine Hardwicke, Empire di Kim Manners.

Nei loro banchetti, però, c’era un problema: il vino. I vini prodotti con metodi moderni non erano certamente adatti per riprodurre in modo perfetto un banchetto ispirato all’epoca etrusca e romana, studiato in ogni minimo dettaglio e con l’attenta lettura delle fonti antiche.

E’ così che inizia la collaborazione con Francesco Mondini (Azienda agricola Tarazona Miriam), il quale, resosi conto che il vino servito durante i banchetti non era all’altezza della cucina di Egidio Forasassi, decide di dare vita ad una produzione sperimentale di vino prodotto nel modo più fedele possibile con il metodo in uso presso gli Etruschi.

In Italia, ormai da molti anni si stanno portando avanti ricerche storiche, archeologiche e botaniche sulle viti e sulla vinificazione delle origini. Questa branca di studi presenta aspetti interessanti anche sotto l’aspetto dello sviluppo economico locale e il progetto realizzato da Francesco Mondini nella campagna aretina, congiunge imprenditoria e cultura. Gli studi e le sperimentazioni di Mondini sono iniziate ben 15 anni fa e solo da poco ha finalmente visto la luce il Vinum Nerum, un rosso che Francesco ama definire una “spremuta d’uva”, in quanto non contiene solfiti, né alcun altro tipo di conservante. Nei quindici anni di test sono stati consultati storici, archeologi, dottori in agraria, geologi e mastri cocciai per ricreare le giare che servivano per la conservazione del vino.
Maurizio Pellegrini, in particolare, ha seguito da vicino il progetto avendone intuito le potenzialità anche dal punto di vista educativo e divulgativo. Grazie a lui, sono entrata in contatto con Francesco Mondini e sono stata invitata, insieme a Laura Patara (tour operator) e a Francesca Pontani(archeologa, redattrice web e membro del consiglio scientifico del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano) a visitare l’azienda e a conoscere il metodo di vinificazione del vino Nerone e del vino Nerum.

La bellissima Azienda Tarazona ha vitigni di circa 80-90 anni che sono di Sangiovese, Canaiolo, Ciliegiolo, Albana, Trebbiano, Malvasia, che vengono sapientemente uniti in percentuali 85% uve rosse e 15% uve bianche. La vigna viene trattata con sistema biologico certificato e biodinamico, cioè concimata con trinciature e tenuta a prato con escrementi animali. Appena raccolta, l’uva viene pigiata una parte a mano e una parte messa in graspugliatrice (molto lenta) e poi una volta riunita, fatta fermentare in cantina in orci di terracotta per 12-15 giorni, follandola manualmente, specie i primi giorni, almeno 4-5 volte al giorno.


La "collina degli orci" presso l'azienda Tarazona di Arezzo

La "collina degli orci" vista dal basso
Francesco Mondini accanto agli orci interrati.

Avvenuta la totale trasformazione degli zuccheri in alcool, il mosto viene portato nella collina degli orci, dove sono posizionati sia gli orci coibentati con resine e cere da dove poi uscirà il Nerum, sia gli orci vetrificati da dove uscirà il Nerone (che ho avuto il piacere di assaggiare durante il banchetto magistralmente preparato da Egidio Forasassi).


I vitigni
Il Nerone viene messo sotto terra senza utilizzo di pompe, dove la temperatura costante, la quasi completa assenza di ossigeno, il buio e l’interscambio con la terra lo rendono un vino unico nei colori, nei profumi, nei sapori e nei retrogusti, veramente senza paragoni. Dopo 18 mesi verrà imbottigliato in magnum e tenuto altri 6 mesi in cantina prima di essere messo sul mercato.


Un magnifico panorama del vigneto


Nel novembre 2013, l’Unesco ha dichiarato Intangible Cultural Heritage la vinificazione in orci in Georgia, uno Paese che vinifica ancora come 5000 anni fa, e pertanto anche l’Azienda Tarazona ha potuto ricevere i permessi per poter commercializzare l’unico vino al mondo fatto con il metodo Mondini, che unisce storia e tecnologia.


Francesco Mondini videointervistato da Francesca Pontani
Per illustrare nel modo migliore il progetto Vinum Nerum, ho rivolto alcune domande a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini.


Francesco Mondini, come è nata l’idea di riprodurre il vino etrusco?

Nel 2000 fui invitato ad un convivio etrusco-romano a Populonia da un caro amico che oltre che cucinare suona anche con i Synaulia (www.soundcenter.it). Alla fine della splendida serata con cena e musica nella necropoli, mi avvicinai al mio amico e obbiettai sulla veridicità del vino servito durante il convivio; ne nacque una bella discussione alla fine della quale decisi di dedicare una parte della vinificazione del nostro vino a esperimenti per arrivare a produrre un vino il più possibile simile a quello che bevevano i nostri avi. La totale assenza di aggiunte chimiche portava ad un gran numero di problemi che con il passare degli anni grazie oltre che ai nostri studi anche alla collaborazione con archeologi, dottori in agraria, geologi, enologi sono stati felicemente superati.


L'ingresso alla "cantina etrusca"
Come avviene il processso di vinificazione nelle giare?


Qui in Toscana il vino “Nerum”, dopo essere stato spremuto in cantina, riposa per almeno 1 anno in orci realizzati a mano da mastri cocciai, coibentati a mano con resine e cera, completamente interrati a 3 mt di profondità per poi tornare negli orci in cantina per almeno 6 mesi. Nel 2015, dopo 25 secoli, potremo gustare un vino vinificato con il metodo antico, quindi quello che ad oggi si può supporre si avvicini di più al vino di quell'epoca, di questa zona, sulla base del percorso di archeologia sperimentale da noi effettuato. I sapori e i profumi derivati dall’interscambio con la terra e con la coibentazione lo rendono un vino totalmente unico e la gradazione può arrivare fino a 15 gradi.


I grandi orci per la conservazione del vino.

Il vino è completamente naturale in quanto non contiene solfiti aggiunti, quanto è difficile ottenere questo risultato?

E' molto difficile e dopo anni di aceto, grazie ai vitigni che donano un uva già ben strutturata, grazie alla collaborazione di enologi, geologi e dottori in agraria siamo riusciti con grande igiene in cantina in primis e poi con l'aiuto di azoto e argon che eliminano l'aria e sopratutto i travasi in tempi ridottissimi, ad ottenere un prodotto con solforosa bassissima. La longevità di questo vino la stiamo studiando ma abbiamo campioni di 13 anni rimasti inalterati nel tempo.

Il vino prodotto è attualmente un rosso. Avete in programma anche la produzione di un bianco?

Come dicono alcuni archeologi il primo vino è stato il bianco, non so quale sia stato veramente il primo ma quest'anno abbiamo sperimentato il metodo Mondini anche sulle nostre uve bianche. Vista l'annata fantastica, un mix di albana, trebbiano e malvasia ed un vitigno sconosciuto porteranno nel 2017 ad assaporare il nostro primo vino bianco, sperimentato già nel 2003 e nel 2005.


L'interno della "cantina etrusca"
I vitigni sono quelli di suo nonno e risalgono quindi circa a 80 anni fa. E’ previsto per il futuro un’ulteriore fase del progetto che preveda anche l'utilizzo di vitigni più antichi?

Siamo in una costante fase di ricerca con archeologi come Maurizio Pellegrini ed anche con la comunità montana e l'istituto per la selvicoltura di vitigni antichi. Poiché i pochi esperimenti fatti non sono in vendita, per ora cerchiamo di apprendere i modi di riproduzione ed i vari innesti usati. Siamo in contatto anche con due aziende che in maremma producono l'ansonica o insulia che è un vitigno addirittura portato dai greci. Pensiamo il prossimo anno di usarla e fare un esperimento al posto della nostra bianca locale. L'obbiettivo sarà riprodurre il Nerum anche con vitigni antichi.

Quali saranno i canali per la distribuzione commerciale del vino? Dove si potra' reperire?

Ci stiamo preparando alla prima uscita, per cui tanta curiosità specialmente dall'estero con contatti dal Giappone dall'Inghilterra, da Singapore, dalla Germania e tanti altri posti, stiamo valutando tutte le richieste che ci arrivano. Noi abbiamo solo 170 Anfore di Nerum e circa 150 magum di Nerone, per cui visto la modesta quantità per noi sarebbe un grande onore partire con vendite alle aste dirette a collezionisti o amatori non solo del vino ma anche della storia che il vino ci tramanda. Siamo stati contattati anche da un distributore locale per il vino Nerone, ma comunque per ora si può reperirlo direttamente in azienda.


La sigillatura dell'orcio  
Maurizio Pellegrini, a che epoca risalgono le prime tracce della produzione del vino in Italia?

Negli ultimi anni le ricerche nel campo della paleobotanica sono effettivamente aumentate e rincorrerle, anche per i diretti interessati, è abbastanza complesso.
La cultura classica da sempre ha attribuito ai Fenici, che colonizzarono l'Italia attorno all'800 a.C., e successivamente a Greci e Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale e la recente scoperta di un vitigno coltivato circa tremila anni fa (1300 - 1100 a. C.) dalla civiltà Nuragica finalmente contraddice con valide prove tale teoria. Infatti presso un nuraghe nelle vicinanze di Cabras, presso Oristano, sono stati scoperti alcuni semi di vitigni di vite domestica probabilmente di origine locale o, forse, importata più anticamente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo di ricerca sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo cercando tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni. I semi, di vernaccia e malvasia ritrovati in un "pozzo dispensa", sono stati datati con l'esame del carbonio 14 dagli studiosi dell'equipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità dell'Università di Cagliari e fanno ritenere che la coltura della vite nell'Isola fosse conosciuta sin dall'età del bronzo. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa, età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".
Invece alcune tracce di Vitis sylvestris, con forme di embrionale coltivazione, sono stati trovate anche nei siti della "Marmotta" sul lago di Bracciano datate fra il 5750 e il 5260 a.C. e di Sammardenchia-Cûeis, in provincia di Udine, un sito datato tra il 5600 e il 4500 a.C. circa.
Altri resti di vite selvatica sono stati rinvenuti nei siti di Piancada (Udine) e Lugo di Romagna (Ravenna), entrambi risalenti al Neolitico antico.
Nella direzione di una origine indigena della viticoltura in Italia vanno anche le ricerche praticate nell'ambito del "Progetto Vinum" mediante lo studio degli aspetti legati all’origine e all’evoluzione della viticoltura, al processo di produzione del vino nell’antichità e con le analisi dei genotipi delle viti autoctone campionate in prossimità dei siti etruschi e romani. 


La preziosa anforetta del Nerum


La sperimentazione condotta dall’Azienda Tarazona di Francesco Mondini è un interessante esempio di connessione tra nuove forme di imprenditoria e cultura. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri? Penso, per esempio, al turismo culturale o alla possibilità di realizzare esperienze didattiche all’interno dell’azienda.

L'esperienza portata avanti dall’Azienda Tarazona apre veramente nuove prospettive; per prima cosa la vinificazione praticata dagli amici Francesco Mondini ed Egidio Forasassi demitizza finalmente la convinzione comune che il cibo dell'antichità non possa essere gradito anche ai giorni nostri. Effettivamente gran parte del vino antico aveva una gradazione alquanto elevata, questo perché in questo modo poteva essere conservato più a lungo e per questo motivo doveva essere diluito ed aromatizzato. Ma, sono certo, che in condizioni ottimali e sempre legate al ceto, il vino doveva essere anche molto buono. Quindi bere oggi un vino che si avvicini alla vinificazione antica ma che abbia anche un gusto "moderno" non può che essere considerato un azione culturale ed avvicinarci di più alla nostra storia come apprezzare un affresco in un sito o un antico vaso nella vetrina di un museo.  Un futuro sviluppo può essere senz'altro quello del turismo culturale da effettuarsi nelle aziende che seguiranno questo impulso ed esperienze didattiche accompagneranno indubbiamente questa nuova prospettiva imprenditoriale.

I musei, le aree archeologiche, le istituzioni culturali che sono interessate alla realizzazione di eventi con Synaulia e con l’Azienda Agricola Tarazona possono utilizzare i seguenti contatti:

lunedì 28 settembre 2015

Come difendere il patrimonio dell’umanità?

Il convegno di European Museum Forum presso l'EXPO di Milano il prossimo 4 ottobre



Domenica 4 ottobre, ore 14, presso l’EXPO di Milano, Cascina Triulza, sala conferenze 100, si svolgerà il convegno “Come difendere il patrimonio dell’umanità?”, organizzato da European Museum Forum e promosso dall’on. Roberto Rampi, VII Commissione Cultura alla Camera.

Il convegno si propone di promuovere la discussione su come fermare le distruzioni del patrimonio culturale dell’umanità, iniziando con il quantificare il giro d’affari mosso dal mercato illecito dei reperti trafugati e cercando di definire linee da adottare nelle politiche nazionali e comunitarie.

I punti che si analizzeranno saranno i seguenti:

• il rafforzamento della lotta al traffico illegale di reperti archeologici che sono patrimonio storico di tutta la nostra civiltà
• la ricerca di strumenti di conoscenza e approfondimento di un tema delicato e spesso sottovalutato e per sensibilizzare il tessuto sociale alla tutela del patrimonio artistico – culturale
• la promozione e la valorizzazione di luoghi preziosi per la nostra memoria storica ed opere scarsamente accessibili al pubblico.

Il convegno prevede la partecipazione di 4/5 relatori più una tavola rotonda finale in cui si identifichino possibili linee di politiche di contrasto e si evidenzi il ruolo fondamentale della valorizzazione per la tutela.
Il convegno è indirizzato a tutti i cittadini che riconoscono nei beni archeologici una parte preziosa del nostro patrimonio storico, con una particolare attenzione agli addetti ai lavori.

I relatori:

on. Roberto Rampi, Commissione Cultura Camera dei Deputati

Avv. Manlio Frigo - membro del Committee on Cultural Heritage Law dell’International Law Association, esperto consulente della Commissione dell’Unione europea, Unesco e Unidroit

Dott. Samer Abdel Ghafour, archeologo siriano, Fondatore del network Archaeology in Syria http://ainsyria.net/ 

Sen. Adele Gambaro,  Commissione Cultura del Consiglio d’Europa

Modera l’incontro la Dott.ssa Maria Cristina Vannini, European Museum Forum


Su Twitter e sugli altri social seguite l’hashtag #cultureforpeace e condividete la vostra opinione.

Per ulteriori approfondimenti:


http://cascina.fondazionetriulza.org/en/initiative/how-to-defend-the-heritage-of-humanity/5822/

copyright http://ainsyria.net/
Grazie a Cristina Maranesi per le informazioni che mi ha cortesemente inviato.

domenica 27 settembre 2015

Un ricordo e un ringraziamento

Ringrazio chi finora ha gradito il manuale "Comunicare l'Archeologia. Metodo ed esperienze", messo a disposizione gratuitamente da alcuni giorni su questo blog 



Sono molto soddisfatta dei risultati che ha ottenuto in pochi giorni il manuale "Comunicare l'archeologia. Metodo ed esperienze", realizzato ormai 8 anni fa con i partecipanti al Corso di Giornalismo e Comunicazione archeologica che organizzai a Roma, presso l'Hotel Globus, tra l'ottobre del 2007 e il marzo del 2008. Il corso ebbe una durata di settantaquattro ore di formazione teorica ed esercitazioni pratiche, distribuite nell'arco di tre settimane. 
Fu un'esperienza che ricordo ancora con molto piacere e che penso ci abbia arricchito, sia dal punto di vista professionale che da quello umano, perché si sono formate amicizie che tuttora perdurano sia con alcuni docenti che con alcuni partecipanti.

Dopo il corso, con un gruppo di partecipanti decidemmo di realizzare questo volumetto che negli anni scorsi era passato un po' inosservato, confuso tra le pagine di questo blog. 
Pochi giorni fa ho pensato di creare una pubblicazione in pdf, mettendola a disposizione sulla piattaforma Joomag e poi rilanciandola sui social; subito sono state registrate ben 611 visualizzazioni su Joomag, su Facebook il post ha raggiunto 11.756 persone, ha ricevuto 54 like ed è stato condiviso 107 volte. Evidentemente si tratta di un tema di cui si sente molto il bisogno di approfondimento e di discussione. Felice di aver dato qualche indicazione con l'aiuto dei colleghi che ho ricordato nella premessa e che desidero citare anche in questo post: Stefania D'Agostino, Astrid D'Eredità, Irene Fusco, Almalinda Giacummo, Massimo Lucano, Gigliola Raffa e Maria Stornaiuolo.

Un lavoro che non ha assolutamente la pretesa di essere una ricerca esaustiva, ma piuttosto una breve introduzione al tema della comunicazione e della scrittura giornalistica in ambito archeologico.

Nonostante siano passati già degli anni, colgo l'occasione di questa pubblicazione web per ringraziare nuovamente tutti i docenti che hanno svolto le lezioni di quel corso e che per tre settimane hanno catturato tutta la nostra attenzione trasmettendoci non solo delle nozioni ma raccontandoci anche le proprie esperienze professionali, soprattutto quando ad insegnare erano i professionisti della carta stampata e delle televisione. 
Per alcuni docenti, essendo trascorso del tempo, potrebbe essere cambiato l'ambito professionale che qui riporto accanto ai nomi, ma faccio riferimento all'attività da essi svolta nel 2007/2008, come riportato nel programma ufficiale, per cui mi si perdoni se nel frattempo ci sono stati dei cambiamenti:

Vincenza Del Marco, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università di Roma “La Sapienza”; Laura Di Nitto, Children Programmes, Media Education Project, International Relations, Rai Tre; Sandra Federici, Presidente dell’Associazione Africa e Mediterraneo e Direttore della Rivista Africa e Mediterraneo; Marco Ferrazzoli, Capo dell’Ufficio Stampa del CNR; Fabio Isman, giornalista e scrittore; Pina Lalli, Insegnamento di Etnografia dei Media, Dip. di Discipline della Comunicazione, Università di Bologna; Andrea Marchesini Reggiani, Presidente della Cooperativa Lai-momo, editrice della rivista Africa e Mediterraneo, Manager delle pubbliche relazioni per la rivista Le Courrier; Maurizio Pellegrini, funzionario archeologo della Soprintendenza per il Lazio e l'Etruria Meridionale, responsabile del Laboratorio didattica e promozione visuale; Isabella Pezzini, Insegnamento di Semiotica dei Consumi, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università di Roma “La Sapienza”;
Claudia Polo, Laboratorio di Scrittura e Cultura della Comunicazione, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università di Roma “La Sapienza”; Piero Pruneti, Direttore della Rivista “Archeologia Viva”, Firenze; Giorgio Salvatori, Redazione Cultura, TG2, RAI; Mario Serra, Direttore di “Archeo News”, Mensile di Informazione economica per l’Archeologia e i Beni Culturali; Cinzia Terlizzi, Redazione Cultura, TG 2, RAI.

venerdì 25 settembre 2015

Al via la XXVI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico



Si svolgerà a Rovereto, dal 6 al 10 ottobre 2015, la XXVI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico.

L’iniziativa nasce nell'aprile del 1990 a Rovereto, nell'ambito del convegno "Paolo Orsi e l'archeologia del '900", con l'intento di raggiungere e sensibilizzare il grande pubblico sui temi della ricerca archeologica e della tutela del patrimonio culturale. La manifestazione è organizzata dalla Fondazione Museo Civico di Rovereto, istituzione in cui si sono formati alcuni tra i più importanti archeologi italiani, come Paolo Orsi e Federico Halbherr, vissuti a cavallo di due secoli , l '800 e il '900. Il partner principale della Rassegna è il periodico "Archeologia Viva" di Firenze, la rivista di archeologia più diffusa in Italia.
Il programma di proiezioni di Rovereto si svolge annualmente nelle prime settimane di ottobre e possono partecipare opere cinematografiche nel settore della ricerca archeologica, storica, paleontologica, antropologica e comunque aventi come scopo la tutela e la valorizzazione dei beni culturali.

Ogni anno vengono proiettati in media dai 60 ai 70 filmati e attraverso il voto del pubblico viene attribuito il premio "Città di Rovereto - Archeologia Viva"; ogni due anni inoltre una giuria internazionale attribuisce il Premio "Paolo Orsi" al film giudicato migliore entro una selezione di opere cinematografiche. La selezione è tematica e attiene le opere di recente produzione.
La conoscenza in campo archeologico viene approfondita tramite molteplici incontri e conversazioni con i diretti protagonisti della ricerca e i responsabili della conservazione e della tutela, archeologi e scienziati provenienti da tutto il mondo.
La Rassegna , in team con "Archeologia Viva", promuove tutti gli anni una rete diffusa di manifestazioni cinematografiche su temi specifici della ricerca archeologica. Queste manifestazioni si svolgono in Italia e all'estero in collaborazione con Enti e Istituzioni scientifiche e Musei.
A partire dal 1990 la Rassegna è diretta da Dario Di Blasi, Conservatore Onorario presso il Museo Civico di Rovereto.


Contatti:

Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico
Museo Civico
Borgo Santa Caterina, 43
I-38068 Rovereto (Trento)
tel +39 0464 452820 (numero diretto)
fax +39 0464 439487

Dario Di Blasi
Conservatore onorario e direttore della Rassegna

e-mail diblasidariofondazioneMCR.it

sabato 19 settembre 2015

New York, anno 5014

Background: (Bertrand B/iStock/Thinkstock) Right: (Shutterstock*)


Che cosa penseranno di noi gli archeologi del futuro? Proviamo a immaginarlo con l’archeologo svedese Cornelius Holtorf, autore dei volumi “From Stonehenge to Las Vegas: archaeology as popular culture” e “Archaeology is a brand!: the meaning of archaeology in contemporary popular culture”.

Immaginate di essere nel 5014 e che gli archeologi stiano studiando la grande civiltà “antica” di New York City. Cosa potrebbero trovare? Quali conclusioni potrebbero ipotizzare sulla società di oggi da quello che hanno ritrovato? E se dovessero ricostruire la nostra civiltà basandosi sulle etichette delle banane? 

Ecco la divertente intervista riportata da Epoch Times.


Quali materiali ci si può aspettare di trovare? (Per esempio, gli archeologi di oggi recuperano oggetti in pietra e metallo, ma i materiali più fragili hanno meno probabilità di resistere al tempo. Le materie sintetiche da noi utilizzate potranno durare per millenni? Sono meno durevoli?)

Holtorf: Nel 5014 gli archeologi incontreranno uno spesso strato di macerie accumulatosi nel corso di 3000 anni, tra cui pezzi di metallo, pietra e plastica. Alcune parti saranno rimaste inglobate nei terreni argillosi; ciò potrebbe aver preservato i materiali organici. Tra i reperti più interessanti che potranno essere recuperati ci saranno, per esempio, le bucce di banana, alcune delle quali presenteranno ancora resti di piccole etichette di carta stampata come questi:

Top left: (Jeepers Media/Flickr) Top right: (Dave Crosby/Flickr) Bottom left: (Jennie Faber/Flickr)Bottom center: (Se Mo/Flickr) Bottom right: (Christopher Furlong/Getty Images)


Epoch Times: Quali oggetti forniranno i maggiori indizi per capire come funzionano i nostri sistemi politici? Che cosa potranno dedurre gli archeologi (correttamente o meno) dall’osservazione di questi oggetti?

Holtorf: Probabilmente dalle etichette che ho citato gli archeologi potranno dedurre che vi sono scritti i nomi di alcuni dei paesi più importanti del 21 ° secolo (Colombia, Ecuador, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Panama), oltre ai titoli e agli organismi politici (consul, control union) e, soprattutto, i nomi di alcuni leader politici: Dole, Oncle Tuca, Del Monte. Gli archeologi, quindi, giungeranno alla conclusione che le banane nel 2015 erano uno status symbol. Ipotizzeranno anche che le persone che ricoprivano le cariche più alte dello Stato usavano tenere sempre una banana in mano durante le cerimonie ufficiali.

Quali oggetti offriranno maggiori indizi utili per capire la nostra cultura? Che cosa potranno ipotizzare gli archeologi dallo studio di questi oggetti?

Holtorf: Le etichette delle banane indicheranno agli archeologi anche i valori culturali della nostra epoca (amichevole, biologico, naturalmente buono, originale), le distinzioni sociali (premio, selezione, oro). Ritroveranno anche un’etichetta con il nome di un popolare software menzionato su altri oggetti già rinvenuti (Excel). In un'altra etichetta riterranno di aver individuato il titolo di una canzone molto nota nella nostra epoca (Chiquitita), anche se alcuni archeologi discuteranno a lungo se la differenza di ortografia possa essere significativa. Quindi, nel complesso, gli archeologi avranno una buona immagine di ciò che poteva essere la vita nel 21 ° secolo.

Quali lacune resteranno a causa della natura digitale della nostra società? (gli archeologi di oggi trovano documenti sotto forma di tavole di pietra, pergamene, eccetera, mentre gran parte delle nostre informazioni sono memorizzate nei server elettronici).

Holtorf: No, al contrario. Nell'anno 5014 si ritroveranno molti messaggi di posta elettronica ricevuti e stampati, conservati in vasti archivi cartacei (anche se alcune parti saranno mal conservate). Il 21° secolo sarà conosciuto come l'Era dell'Informazione, dato che si disporrà di così tante informazioni su di essa.

Quali metodi si utilizzeranno per datare tali oggetti?

Holtorf: Ci saranno vari metodi derivanti dalle scienze naturali. Un gruppo di archeologi sarà pioniere di un nuovo metodo di datazione di questi piccoli manufatti in base al loro gusto. La validità del metodo non verrà completamente accettata e dovranno essere compiuti ulteriori test.

Quale sarà la più grande sfida per capire come viviamo? Ci sarà qualcosa che continuerà ad apparire misterioso agli occhi degli archeologi del futuro?


Holtorf: La più grande sfida per gli archeologi del 5014 sarà cercare di capire quale carica politica rivestisse Onkel Tuca per esercitare una tale, vasta influenza politica. Qualche giovane archeologo più temerario si chiederà se Onkel Tuca sia davvero esistito o se non sia stato, piuttosto, una sorta di copertura per qualcun altro (Dole?).




MODI DI TRASMETTERE NOTIZIE NELL'ANTICHITA'

E' insito nell'uomo ricercare notizie giuste in modi diversi. Nel corso dei secoli le notizie sono state trasmesse in vari modi. Cosi', un segno inciso o dipinto sul tronco di un albero o sulla superficie di una roccia avvertiva e informava l'uomo primitivo della presenza di un nemico oppure del passaggio di una preda.
Ci sono anche altri mezzi visivi (come il fuoco o il fumo) oppure uditivi (come il suono del tamburo), attraverso i quali la gente riceveva notizie. Anzi, alcuni di questi furono utilizzati per un  lungo periodo di tempo. Cosi', per esempio, gli imperatori bizantini installarono un sistema di fari dalle frontiere dell'impero fino a Constantinopoli che, tramite il contatto visivo fra di loro, avvisavano ogni volta che truppe nemiche invadevano il loro paese. Quando le condizioni del tempo erano buone, la notizia dell'invasione giungeva alla capitale entro un tempo molto breve.
Vale la pena ricordare che alcuni di quei mezzi primitivi continuano ad essere usati, certamente solo per tradizione, anche oggi, nell'epoca dei cellulari e di Internet. Durante le sedute per l'elezione del nuovo Papa, per esempio, una fumata bianca o nera appare dagli appartamenti del Vaticano e informa la folla riunita in piazza San Pietro dell'avvenuta elezione oppure della mancata elezione del nuovo Papa.

Tutti i metodi sopramenzionati, usati per la trasmissione delle notizie, non offrivano la sicurezza data dall'uomo stesso quando si impegna a trasmettere in prima persona la notizia. Questo vale anche ai nostri giorni. Il ruolo dell'uomo come messaggero é antico. Ricordiamoci dell'oplite ateniese che copri' la distanza da Maratona fino ad Atene, correndo, per annunciare agli ateniesi la vittoria contro le truppe persiane a Maratona, nel 490 a.C.

Inoltre, quando l'uomo iniziò ad usare animali addomesticati, come per esempio i cavalli o altri mezzi di trasporto piu' veloci, i tempi di trasmissione delle notizie furono notevolmente abbreviati per arrivare fino ad oggi, alla diffusione delle notizie in tempi incredibili con il supporto della tecnologia elettronica.

Comunque, una tappa importante per la diffusione delle notizie fu l'invenzione della scrittura che costitui' il presupposto per la successiva creazione dei giornali. I giornali non erano sconosciuti neppure nell'antica Grecia, pero' non avevano niente a che vedere con la carta stampata a cui oggi siamo abituati. Si trattava, solitamente, di memorandum militari, cioé di “un rapporto dei fatti del giorno”.
Famosi furono i “giornali del re” di Alessandro Magno, dove furono registrate quotidianamente le attivita' del grande generale.

Piu' simile al giornale di oggi fu un tipo di diario dove venivano registrati gli avvenimenti piu' importanti del giorno. I romani furono forse i primi a comprendere l'utilita` di tale diario.
Gli avvenimenti piu' significativi, datati, venivano scritti su cartelli bianchi che erano esposti in luoghi pubblici in modo che fossero accessibili alla gente. Si tratta degli “Annales maximi”, i quali, con il passare degli anni, furono raccolti in decine di volumi.

Senza dubbio, molto piu' vicino ai giornali di oggi furono gli Acta Senatus, cioe' i fatti del Senato Romano e gli Acta Populi (Romani) – fatti quotidiani del popolo romano, una specie di giornale dove venivano pubblicati gli avvenimenti piu' importanti del giorno. Contenevano, quindi, le notizie locali come nei giornali odierni. Articoli di centro, analisi finanziarie, appendici, ecc, erano sconosciuti all'epoca. Nessuna copia di quel tipo di giornale e' giunta fino a noi. Perciò non sappiamo quanto veritiero fosse un foglio degli Acta populi, l'autore del quale, senza dubbio molto piu' giovane rispetto all'epoca cui si riferisce il foglio, lo presento' come un giornale che circolo' a Roma nel 29 Marzo del 168 a. C. Tra i suoi contenuti vi sono notizie che riguardano l'assunzione ufficiale delle funzioni di un nuovo sovrano di nome Licinio, lo scoppio di una tempesta con fulmini,  una rissa con persone ferite in un'osteria, le multe imposte alle macellerie per trasgressione delle norme sanitarie, l'arresto di un agente di borsa sparito dopo essersi appropriato indebitamente del denaro altrui, l'esecuzione di un condannato a morte e la partenza dell'armata punica dal porto di Ostia.
Comunque, fogli falsi di “giornali’’ circolarono gia' in epoca romana. Allora, per esempio, apparvero come originali, testi che si considerava fossero stati scritti dal fronte di guerra troiana da un tale Diktis di Creta e da un Daris da Frigia dell'Asia minore! In altre parole, questi due personaggi furono considerati… corrispondenti di guerra che fecero reportage dai campi di battaglia dove Achille lottava con Ettore. Dictis dava notizie dalla parte dei greci dato che partecipava alle truppe di Idomeneas, del re di Creta; mentre il secondo, dalla parte dei troiani, dal momento che prestava servizio presso l'esercito di Priamo. E mentre questa falsificazione era non solo evidentissima ma anche grossolana, comunque in epoca bizantina esistevano degli scrittori che condiderarono che i due sopramenzionati avessero seguito realmente di persona le lotte sanguinose descritte nella pianura dello Scamandro tra gli Achei ed i Troiani.

Pelagia Kotsoni

Is photo sharing real communication?

An analysis of the Invasioni Digitali (Digital Invasions) phenomenon ahead of the conference “Digital Think-In".

http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/09/is-photo-sharing-real-communication.html


On  the coming November the 4th, the conference  “DigitalThink-In. The digitalvoice of museums” will take place in Rome, organized by MAXXI, which announces itself as the “first digital culture event for museums in Italy”.

Among the participants at the conference, for whom also a #DITcall for presentation of case studies related to the topic at hand is open, there will be James Davis, Program Manager of Google Art Project (London), Antonella Di Lazzaro, Director Media Twitter Italy (Milan), Conxa Rodà, Head of Strategy and Communication - Museu Nacional d'Art de Catalunya (Barcelona), Group MUD Museo Digitale, MiBACT (Rome) and Prisca Cupellini, Comunicazione Online e Progetti Digitali, MAXXI (Rome), Francesco Russo , Web Consultant and blogger, Marianna Marcucci, Cofounder of Invasioni Digitali and Alessandro Bollo, Cofounder and Head of Research of the Fondazione Fitzcarraldo.

The InvasioniDigitali (Digital Invasions) movement, therefore, is once again present at a conference discussing about digital communication, but the Invasions phenomenon has not yet been thoroughly analyzed by the experts. Are we really facing a digital communication model? I will try to argue my personal opinion in  this regard.

Traditional media and digital media


Compared to traditional communication media, in the digital form the transition from linear to reticular connection takes place; the message can be conveyed through various digital environments (Web site, virtual communities), but the most important aspect of digital communication - and that differentiate it different from the traditional one - is primarily the presence of an interactive dialogue between users, based on sharing and participation. If this condition does not occur, it's not possible to perceive any real difference between the two forms of communication.

If we analyze the latest Digital Invasion more in detail, from the point of view of the social communication you can notice a few interactions actually focused on content and just a large number of images (especially the posters that advertise the events and photos of the "Accomplished Invasion" ): so Invasions really took place, but they haven't been sufficiently related during their course. During some not so declaredly “digital” special events (although still having a significant spread on social and other media) such as the European Heritage Days or other similar activities, museums have always promoted some interesting initiatives with great success in terms of audience; from what should then Invasioni Digitali (Digital Invasions) stand out compared to these special events?

Consistency would call for greater “social” participation to the event: this is, in fact, the determining factor in an event that is self-defined as “digital”. In very simple terms, each of the participants should be the eyes and ears of those who are not present at the event, but who will be involved as if they were; they should put online their feelings, expressing the emotions and thoughts that emerge from his/her cultural experience and share it with other people, building a dialogue with them. If communication instead consists of a simple information about the place, date and time related to the event, of some brief describing note, of a large number of images with little comment, finally, of the notification of "Invasion accomplished", you can't speak of a true digital communication. In most cases, in fact, as noted, the interaction was not significant, especially in terms of content and not live storytelling (a few cases) nor other forms of participatory communication have . "Telling" events, therefore, is what should make a difference [1]. Tomaso Montanari writes that “Heritage is a great repertoire, just like theater or music: if no one follows it - that is, if no one tells it, by raising it - it remains inert, dead, lost”.

Furthermore, the same overproduction of images produces adverse effects because it makes the audience less sensitive and attentive to details.

Along with the loss of attention to the pictures and the subjects of the pictures, you risk to trivialize and to disperse into the excess of images even the "wallpapers"  of these selfies, which are the museums and other places of historical and monumental interest. Therefore, pictures and even more selfies, cannot be considered as real content if inadequately captionised and commented, unless they don't own the visual eloquence of the works by great photographers such as Robert Capa. But for most of us, this isn't the case. One of the most famous Italian photographers, Ferdinando Scianna, reminds us that "no one follows with interest who is constantly posing."

A context that does not produce content, not because the initiatives that it advertises are not valid, but because the commitment to find adequate forms of information transfer that go beyond the photo-sharing lacked, won't bring any kind of benefit even to the cultural subject that it was supposed to promote.

To this purpose, Valentina Vacca writes:

For #InvasioniDigitali (DigitalInvasion) the audience  is no longer such, but it «participates to the cultural offer. » In their manifesto they profess to believe, «in a new relationship between the museum and the visitor based on the participation of this latter to the production, creation and promotion of culture through the sharing of data and images. We believe in simplifying the rules to get access and reuse the data of the Ministry of Cultural Heritage to encourage the digitization. We believe in new forms of conversation and spreading of the artistic heritage which are no longer authoritarian, conservative, but open, free, comfortable and innovative». To translate these words, it is enough to explore the website dedicated to the #InvasioniDigitali (DigitalInvasions): inside it you can find a series of selfies shot inside museums and cultural sites having visitors as subjects. It's like if "invading" -as they themselves define the visit by the audience - the museums, monuments and cultural places in general, and then upload a photo on the internet, is tantamount to automatically transmitting the knowledge. As if digitizing the culture coincides with the mere, simplistic as trivial process of sharing images of works of art, of performances, of real estate. Is it maybe just as Baudrillard (1995) said, namely that "the silent majority looks for the image and not for the meaning».

The fact that the appearance, the volume of participation are more prevailing than the content, was somehow shown to me at the recent Social Media Week, by a community manager of a museum, who, in response to my observation about the fact that the Invasioni Digitali (Digital Invasions) are not a true instrument of cultural spread, replied that “for them it was enough to see the people get inside the museum": this is equivalent to declaring that the only purpose that you want to pursue is to “count” the number of visitors. I am convinced that this thought is not what distinguishes all the museums that have joined Digital Invasions in recent years, but in any case it is indicative about the fact that this initiative has been able to generate in some people this kind of reasoning, supported by the incorrect concept, which is too often endorsed by the media, that it's more important to quantify the entrances rather than measuring the effectiveness of the cultural proposals offered by the museums. It is fundamental, then, that museums take on the role of mediators between the manufacturers of the  digital communication and society, but to do so, they must not get themselves trapped by the logic of the “Viral Style” and by any form of extremism in digital communication; they must open themselves, however, to more reasoned and original forms of content sharing and cultural participation, even through the Web 2.0.

The communication strategy of Invasioni Digitali (Digital Invasions)


Initially Invasioni Digitali (Digital Invasion) had focused much of their attention on the problem related to the prohibition on photographing in museums, which was then overtaken by the Decree Law of 31 May 2014, n. 83. A manifesto was created,  joining different ideas relating to the relationship between the museum and the visitor, to the use of social media for cultural communication, to the free circulation of ideas and so on. Carefully reading this manifesto you have the impression that it has handled too many subjects, sometimes in a repetitive and unconnected, even contradictory way: for example, institutions are required to be “open platforms for the spreading, exchange and production of value, allowing  an active communication with their audience”, which implies also having a role of coordination and content control, and at the same time we demand "non-authoritarians forms of conversation and spreading of artistic heritage" reducing, therefore, the leading role of the museum, determined by its scientific authority that we cannot disregard. There is no evidence of a personal processing of the concepts displayed in the manifesto, which are only listed but not developed and commented on.

Furthermore, in the manifesto of Invasioni Digitali (Digital Invasions) it is not clarified how “the Internet can trigger new ways of management, conservation, protection, communication and exploitation of our resources”, as if the Internet was in itself capable of producing these changes, more than television  did sixty years ago, for example, culturally unifying Italy and fighting illiteracy. The emphasis of the Web 2.0 communication is not useful to demonstrate its effectiveness in the cultural fields. In fact, the media - whether they are of old or new generation - are valid only based on the way they are used, as Pier Cesare Rivoltella and Chiara Marazzi rightly point out, according to whom “there are no first class and second class media[2]” because the communication of the digital age will necessarily include them all. Some changes are taking place, we are gradually getting used to them and we can see the old and new media integrate themselves to the point that we can speak of “mediamorphosis, remediation, of age of complementarity”[3]. 

It 'also true that the access to the Internet gives us the most simple and immediate means of individual expression, but we maybe do not emphasize enough that there are still limitations to its use, that can be identified with economic, cultural, anagraphical, or social reasons as well as there are ideological positions that determine the rejection of the use of social networks. Those involved in communication strategies, should therefore consider the digital environment with proper balance, not enhancing it but without neglecting it, because “not being connected” does not mean “not existing” and therefore we must aim at reaching even those who are outside the digital world.

However, when you read in the manifesto of Invasioni Digitali (Digital Invasions):“We believe that the Internet and social media are a great opportunity for cultural communication, a way to involve new players, break down all kinds of barriers, and further promote the creation, sharing , spreading and enhancement of our artistic heritage”, this describes in a simplistic way a situation that has, as already said, more complex aspects.

The main strategy of Invasions Digital can then rather be equalized to the implementation of a Brand Identification System in which you mainly emphasizes the participation to the event and at the same time you try to give the set the value of a “movement of thought” but with no kind of theoretical research. Participants are always considered as a unitary body, without emphasizing the specific personalities and individualities that constitute it: it is not the message of individual participants to prevail, but the “brand”, almost as if it were "viral marketing." While still bearing in mind the confrontation with the strategies of advertising marketing, you notice, for example, a great use of slogans ("We love this game", "We come in peace", etc.,) that, together with the constant exposure of the Invasioni Digitali (Digital Invasions) logo, are designed to promote the brand engagement. In addition, amongst the guidelines for the participants of Invasioni Digitali (Digital Invasions) it is recommended to follow some predetermined actions: I am not referring to the rules of thumb that are necessary in any event that results in an application process by the public, but at the request to carry out precise actions during their own events, producing, thus, an excessive standardization and decrease of the space for the creativity of individuals. It is required, in fact, to use the sign "Invasion accomplished" in which the logo of Invasioni Digitali (Digital Invasions) must stand out and, in addition, to print from the website of Invasioni Digitali (Digital Invasions) a predetermined "mask", that the Invaders will have to wear or otherwise show in their selfies. These requirements help to "depersonalize" the initiatives, increasing the "brand" value to the detriment of the messages that the promoters and participants to individual events could themselves convey in a more original and subjective way. The idea of the mask seems to me, in this regard, all the more emblematic: a mask, the symbol of Invasioni Digitali (Digital Invasions), superimposes itself to the face of the "Invader" and to the monument itself, occupying a leading position with respect to one another.



Because I wanted to experience the first two Invasioni Digitali (Digital Invasions) I can say with full knowledge of the facts that the feeling I had was the one of having turned into an instrument at the service of a movement that left me little room for action with my own manners. Photographing yourself with a sign in your hand bearing the logo of the organization is not really an exhilarating action from the intellectual point of view.
But it is perhaps inevitable that in the cultural field these phenomena take place whereas Erich Fromm, forty years ago already prophesied a society levelled and dominated by the models of advertising [4]. The risk, though, is that you can lose "the profound meaning of what we do because we are not doing it ourselves; our behavior is not an expression of our true personality but is determined by the dictates of the mass to which "we have to" listen and to which we must sacrifice ourselves, being continuously exposed to it [5]. "

Up to two years ago, we were still in a phase where the museums were largely distrustful and reluctant to use means of digital communication, especially social networks; after the first edition of the Museum Week [6], in March 2014, we have assisted to a considerable increase of institutional accounts of the museums, so now we have entered a second stage where the enthusiasm for a new way of relating with the audience seems to prevail. This can certainly be a good thing but the impression is that a distorted image of the mission of the museum is rising, which looks like if it should build its "modernization" only with the help of these new forms of communication, while the real modern museum is especially the one that is able to recognizes the needs of its community, and that is able to analyze the problems of our ages, offering to everybody a place for the sharing and dialogue, without any kind of barrier.

The hope is that it will be possible to conjugate in a fair and balanced way the use of the tools of digital communication with the principles laid down by our humanistic conscience, the one that "acts as a sentinel, call, signal, guiding compass, guide, guardian of our true being, of our universal human nature and of the subjectivity of the Self [7]".


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NOTES

[1] In a post dated April the 30th 2015 of my blog Museums Newspaper, I cited  UrbanExperience as an excellent and evolved example of participatory spreading of the culture using the tools of the Web 2.0

[2] Rivoltella P. C., Marazzi C., “Le professioni della media education”, Roma 2001, p. 22

[3] Totaro A., “Dinamiche di interrelazione tra blogosfera e mediasfera” in C.I.R.S.D.I.G, Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche, Quaderni della Sezione: Diritto e Comunicazioni Sociali, Working Paper n. 29, Dipartimento di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Messina, 2008, p. 5

[4] Cerracchio C., “La manipolazione. Bernays e gli psicomarchettari”, Società & Psiche, 9 novembre 2012, http://www.psicologiaradio.it/2012/11/09/la-manipolazione-delle-masse-bernays-e-gli-psicomarchettari/

[5] Lattanzi P., “La società malata. L’umanesimo di Erich Fromm tra Marx e Freud”, e-book, 2015, p. 137

[6] The Museum Week was first launched in March 2014 by twelve French National Museums in collaboration with Twitter France. Later the social initiative has spread throughout Europe, with the participation of many museums, not only in Europe. The goal of the event is to accede though Twitter to the cultural contents offered by museums to then interact with the editors.

[7] Risari G., “Coscienza umanistica, identità, ‘produttività’ e biofilia” in Erich Fromm, Publication of the International Erich Fromm Society, Italian-English conference “Death and the Love for Life in Psychoanalysis. In Memoriam Romano Biancoli“ on June 5-6, Ravenna 201