venerdì 29 luglio 2016

Academic archaeologists or storytellers?


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«Today’s archaeology requires new skills, new sensitivities for communicating effectively with the wider audience […] We are woefully unprepared for the challenges of an entirely new kind of archaeology. … The academic culture is becoming increasingly irrelevant to much of what contemporary archaeologists do. Yet we persists in training predominantly academic archaeologists… Professional archaeologists have indeed become performers on a public stage who work as sophisticated storytellers».

Brian Fagan
(Epilogue. In: B. Little (ed) Public Benefits of Archaeology, pp. 253-60. Gainesville etc.: University Press of Florida, 2002)

sabato 4 giugno 2016

L'analisi sociosemiotica della televisione: i programmi scientifici

Testo tratto dal saggio di Antonio Santangelo, "Sociosemiotica dell'audiovisivo", Aracne, Roma 2013, pp. 144-147
 
Ogni disciplina che si occupa di media studies ha le proprie tecniche per individuarli e descriverli. La Sociosemiotica si serve a questo scopo di una metodologia specifica, volta a desumerli partendo dall'analisi di un corpus molto ampio di testi. Più precisamente, rimanendo nell'ambito della comunicazione pubblica della scienza per mezzo dei programmi televisivi, il ricercatore sociosemiotico si premura di ricostruire quello che viene definito dagli specialisti come il rapporto tra testo e contesto (R. Grandi, "I mass media tra testo e contesto. Informazione, pubblicità, intrattenimento, consumo sotto analisi", Lupetti, Milano 1992), vale a dire la relazione tra i programmi stessi, i palinsesti in cui essi sono inseriti, l'eventuale offerta di contenuti simili nella programmazione di altri canali, i discorsi che su di essi vengono portati avanti da chi li produce - sotto forma di promo audiovisivi, di comunicati stampa, dei siti web appositamente sviluppati per promuoverli, delle eventuali interviste rilasciate da autori, conduttori e produttori - e, naturalmente, i commenti del pubblico, da quelli dei critici specializzati e degli studiosi, fino alle considerazioni degli spettatori comuni, che spesso si esprimono sui forum su Internet. Nei casi in cui si renda necessario, è inoltre possibile produrre forme di testualità artificiali, realizzate attraverso interviste "qualitative, focus group o tecniche di osservazione etnografica, sempre legate alle figure dei produttori e del pubblico. L'obiettivo, naturalmente, è valutare le somiglianze e le differenze tra tutti questi generi di discorsi, fino ad individuare una serie di regolarità, che costituiscono, per l'appunto, i tratti distintivi dei vari modelli culturali che vi danno origine.
 
 
 
Uno strumento molto utile, per guidare la costruzione del suddetto corpus di testi, è il noto modello della comunicazione di Roman Jakobson ("Saggi di linguistica generale", Feltrinelli, Milano 1966, pp. 181-218). Esso, infatti, evidenzia come il significato di un atto di comunicazione, quindi anche di un programma televisivo, possa essere determinato dal riferimento da parte di quest'ultimo a colui che lo ha prodotto, vale a dire il suo mittente, al suo destinatario, al canale di trasmissione attraversi cui esso viene trasferito, al codice con cui è stato costruito, alla sua stessa struttura interna o al contesto in cui viene scambiato. Quando si comunica, si possono formulare discorsi molto complessi, che parlano ognuno di questi argomenti e le posizioni che si assumono, come sempre accade, sono determinate da modelli culturali, che definiscono un insieme di regole socialmente condivise, a proposito di ciò che si può o che si deve dire dei sei elementi del modello di Jakobson.
Applicando questi ragionamenti al modello della televisione, il ricercatore sociosemiotico sa che per comprendere appieno il senso dei contenuti di un programma, è necessario ricostruire il rapporto di questi ultimi con ognuna delle tematiche appena riportate. Per prima cosa, egli cerca di evincerlo partendo da ciò che dice il programma stesso. Analizza quindi tutti i segni e le strutture discorsive che evidenziano l'immagine che di sé vogliono comunicare il canale televisivo e gli autori, confezionando il loro prodotto in un certo modo. Delinea, quindi, le caratteristiche del tipo di spettatore a cui essi dimostrano di volersi rivolgere (5). Poi cerca di capire che idea di televisione - e del tipo di esperienza mediatica che essa può proporre - venga portata avanti con il programma. Studia quindi la struttura del programma stesso e l'utilizzo che al suo interno viene fatto del linguaggio audiovisivo, dalla costruzione dell'immagine al sonoro, dal montaggio alle tecniche narrative, dalla recitazione (nel caso della fiction) alla conduzione o al coinvolgimento di eventuali ospiti ed esperti (6). Infine, naturalmente, si premura di comprendere ciò che il programma dice, a proposito del tema principale di cui si occupa (7), mettendo in evidenza il modo in cui esso vi fa riferimento, le sue strategie retoriche e argomentative ed, eventualmente, il suo ricorso alla tecnica dell'intertestualità (8).
A questo punto, il ricercatore sociosemiotico è in grado di formulare una serie di ipotesi, a proposito dei modelli culturali che determinano il funzionamento e il significato dei vari discorsi condotti, all'interno del programma televisivo che egli sta analizzando, a proposito del suo mittente, del suo ricevente, della televisione in generale, del suo linguaggio, dei suoi contenuti e di ciò che essi dicono a proposito del mondo circostante. Come anticipato, però, queste ipotesi vanno verificate, attraverso lo studio delle altre forme di testualità "contestuali", a cui abbiamo fatto riferimento sopra. Queste ultime appartengono ai tre ambiti di indagine che, nei television studies, vengono di solito denominati come studi sulla produzione, sull'offerta e sul consumo (F. Casetti e F. Di Chio, "Analisi della televisione", Bompiani, Milano 2001, pp. 7-10), che si rendono necessari per uscire dai confini del testo e poter così generalizzare i risultati delle singole analisi.
 
[...]
 
Sulla base dei ragionamenti appena riportati, si evince che lo studio della rappresentazione della scienza in televisione, condotto con i metodi di indagine delle Sociosemiotica, deve incentrarsi sull'analisi di un singolo programma, per poi allargarsi a quella della programmazione del canale che lo trasmette, passando per una riflessione a proposito del brand del canale stesso. E' quindi necessario capire come funzionano i contenuti della scienza dei canali televisivi concorrenti, sia quelli che parlano direttamente di questi temi, sia quelli che lo fanno indirettamente (per esempio trasmettendo film che utilizzano la scienza come espediente spettacolare e narrativo, o pubblicità che mettono in scena scienziati ed esperimenti scientifici, oppure ancora programmi che invitano gli scienziati stessi per parlare dei più svariati argomenti di attualità). Infine è necessario comprendere come i broadcaster e gli spettatori parlano di questi programmi, come li inquadrano e come li interpretano.
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NOTE
 
[5] La ricostruzione della figura del mittente e del ricevente del modello di Jakobson, quando si svolge l'analisi dei contenuti di un programma televisivo, avviene di solito facendo ricorso agli strumenti delineati da Umberto Eco, per riconoscere le figure dell'autore e del lettore modello di un testo (U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979). [...] E' necessario, però, sottolineare come, soprattutto dal lato della ricostruzione dell'identità del ricevente, ma anche, per molti aspetti, per ciò che riguarda il lavoro sulla figura del mittente, un oggetto complesso come un programma televisivo può attivare diverse letture ed essere pensato secondo una logica incentrata su più autori e su più lettori modello.
 
[6] Per svolgere questo compito, il ricercatore sociosemiotico può servirsi di vari strumenti teorici e metodologici, codificati nell'ambito della cosiddetta semiotica strutturale, che fa capo principalmente alla scuola di Algirdas J. Greimas, i cui studi sono stati trasposti nell'ambito televisivo da vari autori, tra cui M. P. Pozzato in R. Grandi, op. cit. e M. P. Pozzato, "Lo spettatore senza qualità. competenze e modelli di pubblico rappresentati in tv", Nuova Eri, Roma 1995).
 
[7] Si parla, in questo caso, del topic e del focus principale del programma (T. Van Dijk, Text and context. Explorations in the semantics and pragmatics of discourse, Longman, London 1977. Tr. it. "Testo e contesto. Studi di semantica e pragmatica del discorso, Il Mulino, Bologna 1992).
 
[8] Il riferimento, più o meno esplicito, ma comunque chiaramente riconoscibile, all'interno del programma, ad un altro testo.

 

lunedì 25 aprile 2016

Il grande saccheggio

Vent’anni di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici e una straordinaria scoperta

 
Da sinistra: Maurizio Pellegrini, Fabio Isman e Alessandro Barelli
 
Venerdì 22 aprile, presso l’Auditorium della Fondazione Carivit di Viterbo, a Valle Faul, ho avuto il piacere di assistere alla conferenza dell’archeologo Maurizio Pellegrini, funzionario dellaSoprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale (già Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale prima della Riforma Franceschini) e del giornalista e scrittoreFabio Isman (autore del libro “I predatori dell’arte perduta”). 
L’occasione, nell’ambito del ciclo di incontri “Etruscans – Gli Etruschi mai visti” (organizzato dall’Associazione Historia di Alessandro Barelli), ha permesso di ricordare vent’anni di attività di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici che l’Ufficio Sequestri della Soprintendenza ha condotto con grande dedizione e con straordinaria efficacia, ma spesso rimanendo nell’ombra, come dimostra lo scarso riscontro avuto dal punto di vista mediatico, e, mi permetto di dire, anche il tiepido plauso che i protagonisti diretti di questa battaglia contro i trafficanti d’arte hanno ricevuto anche dalle Istituzioni (si può leggere in questo blog un’intervista a Daniela Rizzo e a Maurizio Pellegrini, condotta dalla sottoscritta, nel 2013, per il mensile Archeo News). Eppure i risultati sono stati, quelli sì, sotto i riflettori del mondo: è sufficiente ricordare la restituzione all’Italia del Cratere di Eufronio, scavato illecitamente, venduto ed esposto fin dal 1972 presso il Metropolitan Museum di New York; oppure l’Afrodite di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di Malibu che l’aveva ottenuta nel 1986 da Robin Symes per la cifra di 18 milioni di dollari, solo per citare due dei casi più clamorosi.
 
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sabato 20 febbraio 2016

La rappresentazione dei musei attraverso i mezzi visivi: dai documentari del Ventennio a Youtube

An excursus on the history of the documentary and the visual representations of the museum in Italy, from fascist period to the age of Youtube.
Paper presented at V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, Viterbo, Museo Nazionale Etrusco, Rocca Albornoz, 26-27 settembre 2014

"Musei accoglienti. Una nuova cultura gestionale per i piccoli musei. Atti del V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, a cura di Francesca Ceci e Caterina Pisu, Edizioni Archeoares, 2015




Roberto Rossellini, documentarista televisivo: "L'età del ferro"


Mi fa piacere ritornare su un argomento che ho avuto il piacere di trattare in un contributo che presentai con Maurizio Pellegrini (responsabile del Laboratorio di Didattica e Comunicazione visuale della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell'Etruria Meridionale) al Quinto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei (Viterbo, 26-27 settembre 2014), in gran parte incentrato sul documentario. In quella occasione, in particolare, mi interessai alla figura di Roberto Rossellini documentarista, un aspetto della produzione del grande regista che è ancora poco conosciuto dal grande pubblico. A tale proposito, riporto qui un brano del saggio di Stefano Masi ed Enrico Lancia, "I film di Roberto Rossellini", Roma 1987, in cui è riportata un'analisi del documentario in cinque puntate, L'età del ferro.

(...) L'apparato televisivo accoglie Roberto con una sorta di compiaciuto scetticismo. Lo mette nella condizione di realizzare i suoi progetti, ma gli offre budget di modestissima entità. Tanto che Roberto si ritrova in quella stessa situazione di indigenza produttiva che aveva dovuto affrontare all'epoca di Roma città aperta. Ma questi problemi, anziché deprimerlo, lo esaltano e lo inducono a sperimentare soluzioni sempre nuove.
Il primo atto del Rossellini televisivo è L'età del ferro (1964), storia della tecnologia umana in cinque puntate di un'ora circa. Egli segue l'evoluzione della cultura del ferro dall'antichità fino ai giorni nostri, ricostruendo le tappe principali della storia dell'uomo. Lo spunto è offerto dall'inaugurazione di un grande centro siderurgico a Taranto. Il budget è di cento milioni, ma una metà del costo viene coperta da una sponsorizzazione Italsider. Nelle vesti di producer figurano Ermanno Olmi e Tullio Kezich. Roberto Rossellini appare nei titoli di testa come supervisore mentre la regia è affidata a suo figlio Renzo, detto Renzino; si conclude in questo modo il percorso di allontanamento (almeno formale) di Roberto dalla sedia di regia, lentamente maturato negli anni passati. Egli non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, anzi, è più che mai coinvolto nella realizzazione. Ma ci tiene a rinnegare il ruolo sacrale del regista, feticisticamente attaccato al suo trono. Rossellini scopre e valorizza il cinema come pensiero; l'ideazione, la ricerca, lo studio, la costruzione dell'impianto narrativo, sono fasi che paiono molto più importanti della regia, intesa nella sua accezione più classica. Una volta poste le premesse teoriche, la regia si riduce a mera esecuzione ed egli esprime la volontà di potersene disinteressare (anche se spesso vi è pienamente coinvolto). In L'età del ferro, Roberto compare al principio e alla fine di ciascuna puntata: tira le fila del discorso, ne rimarca gli aspetti salienti, introduce considerazioni diverse. Egli non teme l'immagine delle trasmissioni di studio; non teme di apparire come un mezzobusto parlante sullo sfondo di uno scaffale ricolmo di libri. L'iconografia della televisione "culturale" non lo spaventa: queste introduzioni discorsive sono altri tasselli del suo puzzle espositivo nel quale egli si serve di ogni tipo di materiale, senza paure, senza complessi. Il tessuto espositivo di "L'età del ferro" ci fa pensare ad un grande collage. Vi ritroviamo alcuni brani documentaristici girati ex-novo, immagini tratte da classici del cinema storico ( da Scipione l'Africano di Gallone a Napoleone ad Austerlitz di Abel Gance), sequenze rubate ai suoi stessi lavori (da Luciano Serra pilota a Paisà, a Germania anno zero), brevi sequenze recitate che drammatizzano alcuni passaggi del discorso e perfino lunghi capitoli di racconto. (...) Ciò che emerge dalle cinque puntate di L'età del ferro è soprattutto il ritrovato entusiasmo di Rossellini. Questa formula, nella quale convivono documentario e recitazione, è certamente la più adatta alle sue doti, alla sua sensibilità e perfino alla sua disorganicità. Essa gli consente di dedicare la massima attenzione ai momenti della storia che ritiene più toccanti e significativi; e d'altra parte gli consente di liquidare con quattro foto d'archivio ed una voce off i passaggi che meno lo intrigano.
Le cinque puntate di L'età del ferro furono messe in onda dalla RAI settimanalmente, il venerdì sera alle 21.15, sul secondo canale, a cominciare dal 19 marzo 1965. Ottennero un audience media di due milioni e seicentomila telespettatori per puntata, risultato apprezzabile soprattutto se si considera che contemporaneamente il primo canale trasmetteva cose assai ghiotte, come l'appuntamento settimanale con la prosa.

venerdì 19 febbraio 2016

Archeologia e Folkore (o cultura popolare)

LIBRI

Archaeology and Folklore 

di Amy Gazin-Schwartz, Cornelius J. Holtorf, London 1999, 2005





Archaeology and folklore are two of the many lenses through which the past is given meaning, and it is the aim of this volume to explore and understand differences and similarities in how archaeology and folklore create, and are created through, ideas about the past. In the intersections between these similarities and differences, we hope to find new lenses, through which we can begin to create alternative images of people’s histories.