domenica 2 settembre 2012

Archeologia e cinema



L'interesse del cinema per il mondo antico non nasce direttamente dall'archeologia, bensì dai romanzi storici e d'avventura, un genere di moda tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. Quasi che ci fosse, da parte dei cineasti, la necessità di un filtro per offrire a un pubblico vasto una realtà lontana e non presente nel bagaglio di conoscenze dello spettatore comune, che decreta il successo o l'insuccesso commerciale di un film.

I primi colossal

Il primo tentativo cinematografico fu la versione muta di Ben Hur, realizzata nel 1907 dal regista Sidney Olcott: fu anche la prima sceneggiatura di un certo peso tratta da un romanzo. Nell'era del muto seguirono non pochi film, sia di Hollywood sia di produzione italiana: tra i colossal americani va ricordato in primo luogo il grandioso Intolerance di David W. Griffith, del 1916, ambientato in diversi scenari del mondo antico. L'Italia non fu da meno e realizzò produzioni grandiose come la prima versione di Quo Vadis, del 1913, con ben 5000 comparse, e Cabiria, del 1914, al quale collaborò Gabriele D'Annunzio. A essere privilegiati erano in genere i temi greci e romani; ma anche Cartagine, Babilonia e, soprattutto, l'antico Egitto stimolarono la fantasia di sceneggiatori e registi.
Gli ultimi giorni di Pompei, tratto dal romanzo di George Bulwe-Lytton, ebbe numerose versioni cinematografiche, non meno di una dozzina, in Italia e negli Stati Uniti, come del resto accadde con Ben Hur, Quo Vadis? e Spartacus. La più interessante è probabilmente quella girata con grandi mezzi in Italia nel 1925, un vero e proprio colossal soprattutto se ci si rapporta ai tempi. Il testo Quo Vadis?, di Henryk Sienkiewitz, era stato portato sullo schermo l'anno precedente, addirittura con le scenografie di Armando Brasini, l'architetto del Ponte Flaminio e di tanti altri monumenti antichizzanti di Roma.

L'era degli studios


Dopo l'interruzione della guerra venne il successo di Sansone e Dalila, diretto nel 1949 dal grande Cecil B. DeMille. Da lì nacque la fortunatissima serie dei film e di remake americani degli Cinquanta e dell'inizio dei Sessanta: spiccano tra tutti il Giulio Cesare di Joseph Mankiewicz, tratto da Shakespeare, con la memorabile interpretazione di Marlon Brando nelle vesti di Antonio; la nuova versione di Quo Vadis?, del 1951, con un giovane Sergio Leone come aiuto regista e l'indimenticabile Nerone di Peter Ustinov; quella di Ben Hur, del 1959, diretta da William Wyler con la collaborazione, tra gli altri, di Mario Soldati e l'interpretazione di Charlton Heston, pellicola premiata con 11 Oscar; il superbo Spartacus di Stanley Kubrick, del 1960, centrato sulla figura di Kirk Douglas nella parte dello schiavo trace che si ribellò a Roma. Nacquero anche i colossal biblici, che dovevano non poco all'archeologia del Vicino Oriente: si pensi soltanto a I Dieci Comandamenti, che fu il primo di una lunga serie. 
Sulla scia dei successi americani, in Italia, tra Tirrenia e Cinecittà si produssero negli stessi anni centinaia di cosiddetti "pepla", come venivano chiamati: cos come c'erano i film di cappa e spada, s'inventarono i film di peplo e spada! Purtroppo il livello era in genere assai basso, e più godibili sono le parodie comiche del genere, talvolta interpretate dal geniale Totò. 



Negli Stati Uniti la moda passò soltanto a causa di un disastro economico: la celebre produzione di Cleopatra, con Elizabeth Taylor (e certo Cleopatra non fu mai tanto bella!), costò la bellezza di 45 milioni di dollari - siamo nel 1963 - e si riveò un fiasco clamoroso; la casa di produzione, la Twentieth Century Fox. rischiò addirittura il fallimento. Così, per timore di ulteriori fiaschi, si interruppe bruscamente la tradizione hollywoodiana, mentre continuava quella sulle rive del Tevere: sempre più limitata alle produzioni televisive, sia pure di un certo impegno. Tra l'altro, le produzioni televisive dettero maggiore spazio all'antichità greca, in particolare con le avventure dell'Odissea, e al mondo biblico, con infinite ripetizioni delle storie evangeliche.
Si ebbero, del resto, anche produzioni di qualità: ad esempio il Satyricon di Fellini, del 1968-69, ispirato al celebre romanzo di Petronio Arbitro - in cui va in scena la "felliniana" cena organizzata dal nuovo ricco Trimalcione - oppure Il Vangelo secondo Matteo e Le Mille e una Notte di Pasolini, quest'ultimo girato sui bellissimi sfondi delle architetture yemenite, allora poco note. In queste produzioni c'è una sostanziale ricerca di un'alternativa alle fanfare e ai lustrini di Hollywood, fino nella scelta di musiche e costumi etnici, quasi a creare un'antichità del pensiero il più possibile distinta dalla realtà odierna.

Da Indiana a Gladiator


Ma le avventure dell'antichità in pellicola non erano ancora finite: a distanza di decenni dal fiasco di Cleopatra, Hollywood si è nuovamente gettata nelle avventure dell'archeologia. L'inizio di questa nuova fioritura va ricercato nella saga di Indiana Jones, simpatico ma improbabile archeologo cacciatore di tesori, alle prese con un Antico suggestivo, anche se irreale. La sola idea che gli obiettivi di un archeologo possano essere l'Arca dell'Alleanza o il Santo Graal non può che nascere in un ambiente imbevuto di religiosità confusa. Come altrettanto confusa risulta l'illustrazione dei modi di lavoro di un archeologo.
Più di recente il mondo del cinema, appena riavutosi dall'ubriacatura di Titanic, è stato travolto da Gladiator. Pareva impossibile che Hollywood, alle soglie del XXI secolo, potesse essere in grado di togliere quella patina di mufa e polvere dal genere dei "pepla"; ma bisogna dare atto al regista Ridley Scott di aver reso la storia avvincente e vicina al gusto del pubblico odierno.
Colpisce il fatto che già negli anni Cinquanta il grande semiologo Roland Barthes, prendendo ad esempio il Giulio Cesare di Mankiewicz, rilevasse quanto di mistificatorio ci fosse nei film ambientati nell'antichità. Ma ormai non c'è più neanche il filtro dell'interpretazione shakespeariana dell'antichità, un tempo inevitabile nel mondo anglosassone. I personaggi pensano e agiscono emotivamente con criteri moderni, seguendo pedissequamente l'elementare catalogo dei comportamenti leciti e dei buoni sentiment che vale nell'America di oggi, o almeno nel suo universo di celluloide. Nessuno pretende che si possa ricostruire uno scenario di duemila anni fa con esattezza filologica ineccepibile, ma neppure è accettabile che del mondo antico si dia un'idea così pesantemente falsata. Gladiator, per esempio, pur essemdo un film riuscito, aleggia in un passato indefinito e indistinto, sospeso tra antichità e medioevo.
Attendiamo a questo punto la versione cinematografica dei nuovi romanzi storici, dal Ramses di Christian Jacq all'Alessandro Magno di Valerio Massimo Manfredi.
Resta da esaminare un altro genere: il documentario archeologico. Sempre più seguiti, grazie a fortunate trasmissioni televisive di divulgazione scientifica che li programmano con regolarità, queste produzioni sono purtroppo schiave dell'audience: in esse va comunque e sempre inserito un alone di mistero, anche quando non ve ne sarebbe traccia negli scenari descritti. Anche qui vien fatto di chiedersi se non sarebbe possibile una maggiore aderenza ai fatti, e asupicabile uma maggiore fantasia nella scelta dei temi; anche se rispetto a tempi non lontani, in cui tali documentari fantasticavano tutt'al più di Atlantide, qualche passo in avanti è stato fatto, grazie anche al supporto informatico che oggi permette ricostruzioni del reale altrettanto suggestive quanto gli scenari del mistero.
Che cosa si produrrà nei prossimi anni è difficile dire: certo è che il mezzo dell'immagine televisiva e cinematrografica sarà ancora a lungo usato; c'è da sperare che la ricerca di spettacolarità e la caccia all'audience non facciano definitivamente piazza pulita di ogni rigore scientifico.

Tratto da: Divi del grande schermo in "I segreti dell'Archeologia", Enciclopedia diretta da G. M. Della Fina, De Agostini 2001

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