Mi fa piacere ritornare su un argomento che ho avuto il piacere di trattare in un contributo che presentai con Maurizio Pellegrini (responsabile del Laboratorio di Didattica e Comunicazione visuale della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell'Etruria Meridionale) al Quinto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei (Viterbo, 26-27 settembre 2014), in gran parte incentrato sul documentario. In quella occasione, in particolare, mi interessai alla figura di Roberto Rossellini documentarista, un aspetto della produzione del grande regista che è ancora poco conosciuto dal grande pubblico. A tale proposito, riporto qui un brano del saggio di Stefano Masi ed Enrico Lancia, "I film di Roberto Rossellini", Roma 1987, in cui è riportata un'analisi del documentario in cinque puntate, L'età del ferro.
(...) L'apparato televisivo accoglie Roberto con una sorta di compiaciuto scetticismo. Lo mette nella condizione di realizzare i suoi progetti, ma gli offre budget di modestissima entità. Tanto che Roberto si ritrova in quella stessa situazione di indigenza produttiva che aveva dovuto affrontare all'epoca di Roma città aperta. Ma questi problemi, anziché deprimerlo, lo esaltano e lo inducono a sperimentare soluzioni sempre nuove.
Il primo atto del Rossellini televisivo è L'età del ferro (1964), storia della tecnologia umana in cinque puntate di un'ora circa. Egli segue l'evoluzione della cultura del ferro dall'antichità fino ai giorni nostri, ricostruendo le tappe principali della storia dell'uomo. Lo spunto è offerto dall'inaugurazione di un grande centro siderurgico a Taranto. Il budget è di cento milioni, ma una metà del costo viene coperta da una sponsorizzazione Italsider. Nelle vesti di producer figurano Ermanno Olmi e Tullio Kezich. Roberto Rossellini appare nei titoli di testa come supervisore mentre la regia è affidata a suo figlio Renzo, detto Renzino; si conclude in questo modo il percorso di allontanamento (almeno formale) di Roberto dalla sedia di regia, lentamente maturato negli anni passati. Egli non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, anzi, è più che mai coinvolto nella realizzazione. Ma ci tiene a rinnegare il ruolo sacrale del regista, feticisticamente attaccato al suo trono. Rossellini scopre e valorizza il cinema come pensiero; l'ideazione, la ricerca, lo studio, la costruzione dell'impianto narrativo, sono fasi che paiono molto più importanti della regia, intesa nella sua accezione più classica. Una volta poste le premesse teoriche, la regia si riduce a mera esecuzione ed egli esprime la volontà di potersene disinteressare (anche se spesso vi è pienamente coinvolto). In L'età del ferro, Roberto compare al principio e alla fine di ciascuna puntata: tira le fila del discorso, ne rimarca gli aspetti salienti, introduce considerazioni diverse. Egli non teme l'immagine delle trasmissioni di studio; non teme di apparire come un mezzobusto parlante sullo sfondo di uno scaffale ricolmo di libri. L'iconografia della televisione "culturale" non lo spaventa: queste introduzioni discorsive sono altri tasselli del suo puzzle espositivo nel quale egli si serve di ogni tipo di materiale, senza paure, senza complessi. Il tessuto espositivo di "L'età del ferro" ci fa pensare ad un grande collage. Vi ritroviamo alcuni brani documentaristici girati ex-novo, immagini tratte da classici del cinema storico ( da Scipione l'Africano di Gallone a Napoleone ad Austerlitz di Abel Gance), sequenze rubate ai suoi stessi lavori (da Luciano Serra pilota a Paisà, a Germania anno zero), brevi sequenze recitate che drammatizzano alcuni passaggi del discorso e perfino lunghi capitoli di racconto. (...) Ciò che emerge dalle cinque puntate di L'età del ferro è soprattutto il ritrovato entusiasmo di Rossellini. Questa formula, nella quale convivono documentario e recitazione, è certamente la più adatta alle sue doti, alla sua sensibilità e perfino alla sua disorganicità. Essa gli consente di dedicare la massima attenzione ai momenti della storia che ritiene più toccanti e significativi; e d'altra parte gli consente di liquidare con quattro foto d'archivio ed una voce off i passaggi che meno lo intrigano.
Le cinque puntate di L'età del ferro furono messe in onda dalla RAI settimanalmente, il venerdì sera alle 21.15, sul secondo canale, a cominciare dal 19 marzo 1965. Ottennero un audience media di due milioni e seicentomila telespettatori per puntata, risultato apprezzabile soprattutto se si considera che contemporaneamente il primo canale trasmetteva cose assai ghiotte, come l'appuntamento settimanale con la prosa.
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