di Caterina Pisu
In vista della festa dell’8
marzo, vorrei parlare di un fenomeno che, a mio avviso, ha qualcosa di
preoccupante: il tentativo di far risaltare o in qualche modo “separare” la
realtà femminile presente nei vari ambiti lavorativi e professionali: così
fioriscono associazioni e/o movimenti di donne giuriste, medico, avvocati,
imprenditrici, geometra e ora…anche archeologhe. Questi movimenti, in realtà,
creano essi stessi le differenze, proprio
perché tendono da un lato a far sembrare che le donne vivano in una continua condizione
di inferiorità dall'altro a circondarle di una sorta di “aura sacra”, in virtù della quale si pretendono condizioni di privilegio rispetto ai colleghi uomini (per es. quote rosa e via
dicendo).
Come donna la trovo un’idea molto
stupida e anacronistica, così come lo è la “festa della donna” cui ormai siamo
tutti abituati. Le donne valgono quanto un uomo, questo è un dato di fatto, ma
poi ogni individuo dovrà dimostrare le qualità che possiede con le proprie
uniche forze. E saranno uomini e donne insieme a pretendere che lo Stato
promulghi leggi valide che tutelino tutti i lavoratori, senza distinzione di
sesso, età, razza e religione, in qualsiasi particolare condizione di
svantaggio si possano trovare.
Come ha detto la femminista
(vera) Caitlin Moran, «il
femminismo non è buddismo» e, infatti,
perché mai le donne dovrebbero fare corporazione? «Le donne sono il 52% della popolazione, è impossibile essere
tutte d’accordo. Se gli uomini possono parlare male l’uno dell’altro,
perché non possiamo farlo noi?». Una logica talmente ovvia da mettere
immediatamente nell’ombra quelle che io chiamo le femministe demagoghe (e i femministi demagoghi), ovvero
chi usa i problemi delle donne per attirare l’attenzione su di sé.
E per finire ancora con le parole della Moran:
«Basta con il femminismo come medicina da
assumere a tutti i costi».